Parliamo di servi: tutti li usano, ma quanti ne
conoscono davvero il funzionamento? Questa volta
affrontiamo un tema un po’ complesso, ma sicuramente di
grande importanza: parleremo dei servomeccanismi,
comunemente detti “servi”, che sui modelli tramutano la
nostra volontà (espressa tramite il movimento degli
sticks posti sul radiocomando) negli azionamenti delle
superfici mobili, della farfalla del carburatore, dello
sterzo, e di quant’altro ci venga in mente d’installare
a bordo.
Un po’ di storia
I primi tentativi di comandare un
aeromodello tramite segnali radio risalgono agli anni
‘30, quando in America alcuni modellisti in possesso di
buone conoscenze di elettronica, cominciarono a
costruire ricevitori sufficientemente piccoli e leggeri
da poter essere imbarcati sui motomodelli impiegati
all’epoca per il volo libero. Queste apparecchiature
utilizzavano una valvola miniatura, che richiedeva per
il suo funzionamento due batterie: una a bassa tensione
per l’accensione del filamento, ed una ad alta tensione
(se non ricordo male, il valore tipico era di 67,5 volt)
per l’eccitazione anodica; inoltre, per ottenere un
funzionamento sufficientemente affidabile, bisognava
continuamente intervenire con delicate operazioni di
taratura. Il trasmettitore, anch’esso equipaggiato con
valvole termoioniche, era dotato di un solo pulsante,
che consentiva, quando premuto, l’emissione del segnale
radio; se (il condizionale, all’epoca, era d’obbligo...)
la ricevente captava il segnale, azionava un piccolo
relè. Ed il servo? Certo, definirlo così significa
precorrere i tempi di qualche decina d’anni; comunque,
anche se in modo primordiale, svolgeva alcune funzioni
che hanno poi portato allo sviluppo dei sistemi odierni.
Il servo dell’epoca si chiamava “scappamento”: era
azionato da una piccola matassa elastica, o da una molla
(andava quindi caricato prima di ogni volo..), la quale
faceva ruotare, per un quarto di giro, un’ancoretta
sagomata a crociera ogni volta che il relè della
ricevente veniva eccitato dal segnale emesso dal
trasmettitore. Quest’ancoretta veniva in genere
collegata al timone direzionale del modello, e la
sequenza tipica di comando era (partendo dalla
situazione di riposo): prima pressione sul pulsante,
timone tutto a destra; secondo azionamento, timone di
nuovo al centro; ancora un comando, timone tutto a
sinistra; ultimo impulso, ancora al centro. Per fare un
esempio, il modellista che desiderava effettuare una
virata a sinistra, partendo da una situazione di volo
rettilineo, doveva per prima cosa premere il pulsante
tre volte in rapida (ma non troppo...) successione, poi,
dopo aver effettuato la virata desiderata, azionare
ancora una volta il comando per tornare alla condizione
iniziale. Questo metodo di controllo, denominato
“bang-bang”, rimase in uso per molti anni, finché, verso
la fine degli anni cinquanta, l’introduzione dei
ricevitori a transistor consentì una notevole evoluzione
del sistema, tramite l’impiego del selettore a lamine
vibranti. In pratica, il trasmettitore era equipaggiato
con più pulsanti, ognuno dei quali, quando veniva
premuto, modulava il segnale radio con una differente
frequenza acustica (compresa tra 250 e 600 Hz); ciascuna
lamina del selettore presente sul ricevitore era
accordata sulla frequenza emessa dal relativo pulsante,
ed entrava in risonanza con essa, chiudendo il circuito
di comando ad essa associato, che poteva quindi azionare
anche profondità, alettoni, o altro. Il numero tipico di
canali (sempre del tipo bang-bang) presenti sui
radiocomandi dell’epoca era di quattro, ma alcuni
apparati arrivarono ad offrirne anche sei. Negli anni
sessanta, l’evoluzione della tecnologia rese possibile
la realizzazione di apparati in grado di azionare i
comandi del modello non più con le modalità “tutto o
niente” descritte finora, ma controllandone con
precisione i movimenti: era nato il radiocomando
proporzionale che, sia pure arricchito nel tempo da
molteplici funzioni
accessorie, usiamo
tuttora. |